“Cor cordis”

Il cardinale Barbarigo giunse a Padova come vescovo il 24 marzo del 1664 e vi lavorò instancabilmente per quasi 33 anni, spendendo buona parte delle sue risorse per il rinnovamento del seminario: lo considerava il cor cordis della diocesi. Dal seminario, infatti, secondo il suo progetto, doveva prendere avvio la più ampia riforma del clero e di tutta la vita diocesana. In pochi anni, prima ancora dell’acquisto dell’attuale sede, aveva portato i chierici da 12 a 70 e aveva introdotto tutti gli insegnamenti, dalle elementari alla teologia.

Nel 1669 acquistò il monastero di Santa Maria in Vanzo, ormai soppresso e appartenuto ai canonici di San Giorgio in Alga; le spese, sia per l’acquisto (3500 ducati), che per un primo restauro furono ingenti e molti lavori furono finanziati con il suo stesso patrimonio attingendo ai fondi della prestigiosa famiglia Barbarigo. A seguito dei primi adattamenti, il 4 novembre 1670 fecero il loro ingresso nel “nuovo” seminario 106 chierici che ben presto salirono a 150.

L’anno successivo, 1671, il Barbarigo dava ai superiori e ai chierici un regolamento per la vita del seminario, Institutionum epitome, in tre volumi, ispirandosi agli Acta ecclesiae mediolanensis di San Carlo Borromeo, già adottati nei seminari in diocesi di Milano. La riorganizzazione dell’ordinamento degli studi, invece, impegnò il cardinale per quasi 19 anni, la Ratio studiorum è del 1690, e prendeva come base il modello gesuitico che il Barbarigo adattò e sperimentò a lungo prima di codificarlo.
A Padova il Barbarigo introdusse l’insegnamento del greco e delle lingue semitiche e inaugurò la scuola di storia ecclesiastica, mancante ancora di testi propri ai quali provvide con l’istituzione della tipografia del seminario; la scuola di matematica, cui era annessa una specola con cannocchiali, compassi, globi, precedente di quasi un secolo quella dell’università della città.
Consigliava e raccomandava ai chierici di impratichirsi insegnando nelle parrocchie e predicando pubblicamente.

Una delle sue principali preoccupazioni era la conversione dell’Oriente oltre che la riunificazione con gli ortodossi. Per questo si adoperò con zelo per la formazione di futuri missionari: li desiderava qualificati nella conoscenza della lingua ebraica, araba, del turco, persiano e siriano, tutte discipline che introdusse nello studio in seminario. I libri necessari furono tutti stampati proprio nella tipografia del seminario.
Il Barbarigo voleva preti santi e dotti. Per loro non badò a spese, non si accontentò solamente di una nuova sede ampia come l’ex monastero di Santa Maria in Vanzo, ma fece venire anche i migliori educatori e illustri professori dall’Italia e dall’estero, nell’attesa di prepararsi i suoi educatori e docenti. Attrezzò il seminario di tre costosi ma importanti strumenti: la tipografia, la biblioteca, la specola.
Seguiva personalmente le vicende del seminario, fermandosi per due mesi, marzo e luglio, ad assistere agli esami e con frequenti visite negli altri periodi. «Il seminario è l’unico spasso che trovo tra le spine del governo episcopale», scriveva al granduca di Toscana Cosimo III, il 24 marzo 1684.

L’impronta data dal Barbarigo, in particolare nell’attenta e intelligente formazione di un gruppo di educatori e professori, rimase viva nel seminario ben oltre la sua morte, ed ogni riforma e ripresa successiva si appellerà alle norme e alle indicazioni da lui lasciate, più di un vescovo succedutogli dedicò attenzioni e risorse al seminario.

Principi e fondamenti

Nella Ratio manoscritta (1669-1678), preambolo della Ratio studiorum (1690), noi leggiamo che i ragazzi devono «camminar con metodo

[…] deducendo un principio dall’altro, onde l’intelletto resti illuminato […] perché batter qua e là niente serve». Già qui comprendiamo l’identità del metodo pedagogico e l’essenza dell’ideale di riforma che ha animato l’opera di San Gregorio Barbarigo, una felice e riuscita anticipazione nel cammino cattolico, di molti criteri moderni, quali l’antiverbalismo, l’anti-mnemonismo, la conoscenza concreta e personale dell’alunno, l’applicazione del metodo al ragazzo e non del ragazzo al metodo, la preferenza alla logica sull’eloquenza, l’amore per le anime giovanili. Apprezzatore del principio umanistico nel processo di apprendimento, ma sempre più convinto della necessità di un’educazione meno inutile alla vita, più vicina alle effettive esigenze concrete del soggetto, attento ad una preparazione professionale competente che tenga presente le attitudini individuali e specifiche di ciascun alunno.

Il Barbarigo si raccomandava che gli educatori tenessero conto dello sviluppo armonico, compiuto e integrale dei ragazzi, l’attenzione a non chiedere loro più di quanto potessero dare, considerando le dinamiche psicologiche di ciascun educando: «ho paura che il putto sia un poco avvilito» (S. Serena, Lettere del Card. Gregorio Barbarigo al rettore del suo seminario di Padova Sebastiano De Grandis raccolte e dichiarate, Padova 1940, p.13).

Gli educatori non dovevano mai dimenticare che i ragazzi erano esseri viventi, in continua crescita, in continua evoluzione, così il dinamismo educativo doveva inserirsi e alimentare positivamente questa tensione che già innerva la vita del giovane. In favore dei seminaristi, gli educatori dovevano sacrificare ogni visione strettamente personale, assecondando sempre, quando possibile, le inclinazioni personali e osservando in quale mansione queste si sarebbero meglio espresse. Una pedagogia nata dalla simbiosi di umanesimo e sano realismo. Per il Barbarigo l’alunno è un’anima ed è dal maestro che deve apprendere, con chiarezza, i più alti concetti, non da ultimo quello del valore della sua persona.
Lo stesso cardinale Pio Laghi in un suo discorso tenuto a Padova in occasione del terzo centenario dalla morte di San Gregorio rileva nel pensiero del santo «la necessità della collaborazione tra educatore e seminarista, l’attenzione al soggetto da educare per conoscerlo nelle sue attitudini e nei suoi difetti».