“Bontà e dottrina”

sgregorioAi dilettissimi chierici del suo seminario, il Cardinale Barbarigo, vescovo di Padova, nel 1671, consegna le Institutionum epitome (il titolo è esattamente: Institutionum ad universum seminarii patavini regimen pertinentiun epitome), regole o altrimenti definite come “institutiones”, «ricavate da quella grande idea di santità che è nota al mondo tutto, San Carlo Borromeo». In queste troviamo una sorta di testamento spirituale del santo fondatore del seminario patavino, indicazioni per la vita frutto della sua personale e profonda esperienza, intrise del suo vivo desiderio di una «santa riforma della disciplina ecclesiastica».

Il regolamento, giustamente fu chiamato “istituzioni” poiché è l’anima del seminario. Ne coordina i mezzi al fine, regolandone la vita, ne determina la fisionomia e quindi l’efficacia formativa; proprio per questo, più ancora che per aver donato un nuovo e più adatto locale, il Barbarigo a buon ragione deve essere considerato il fondatore del seminario.

Gregorio Barbarigo attinse alla sapienza di colui «che fu il primo esecutore del sacro Concilio di Trento nella fondazione de seminarii», appunto San Carlo Borromeo, arricchendola con il sapore della sua sapiente pedagogia e con la paterna carità che lo caratterizzava, pertanto non si accontentò di copiare le regole del santo milanese, ma le elaborò a lungo nella sua grande anima alimentata dalla ricchezza della sua esperienza.

Rivolgendosi ai suoi chierici li appella come «nobili pianticelle» che, imbevute dell’acqua delle regole abbiano «a rendere frutti abbondanti in pro di questa nostra diocesi»; e ancora, in una sua lettera, così si esprime con riferimento alle sue regole: «niente è sancito in queste tavole di vita più santa che non sia stato ben ponderato».

Il Barbarigo nel primo capitolo delle “institutiones”, titolato dello scopo di essi chierici, espone le «due cose principali che in un pastore delle anime si ricercano»: la bontà e la dottrina. Lo scopo del seminario, così come lo intendeva il santo, era appunto quello di attendere a queste due esigenze, ed esplicando ulteriormente rilevava come il bisogno della bontà sia maggiore di quello della dottrina. Ognuno, sia esso chierico, o maestro, o rettore, deve rinnovare continuamente il proponimento di voler essere un buon ministro nella chiesa, e con tale sentimento, sarà spontaneamente meglio predisposto all’apprendimento della dottrina o all’educazione della stessa.

Le “istituzioni” accompagnavano passo a passo il chierico nella chiesa, nella scuola, nella camerata, nel dormitorio, nel refettorio, nella ricreazione, nel pubblico e nel privato, nel suo comportamento esterno e nella sua vita intima. Quanto fossero importanti le “regole” nella formazione del chierico ci viene testimoniato dal paragrafo conclusivo delle stesse, nel quale vi si legge «queste regole, spettanti a’ chierici, si leggeranno in tavola almeno una volta il mese […]. ciascheduno doverà havere appresso di se le presenti regole».

Esercizi di devozione

Nel capitolo secondo si espongono gli esercizi di devozione. Ogni mattina è prevista mezz’ora di orazione mentale, segue la recita del mattutino con le lodi; «tutti pure ogni giorno prima d’entrare in scuola ascolteranno divotamente la santa messa […] in  tanto recitando le hore terza, sesta e nona, […] e la corona, mentre il sacerdote è nelle secrete».

Dopo il pranzo si raccomanda ai chierici di andare in chiesa davanti al santissimo sacramento, in ginocchio, recitando cinque pater e cinque ave; la sera, ritirati in dormitorio «per un quarto d’hora faranno l’esame di coscienza, osservando sempre il silenzio».

La messa delle domeniche e delle altre feste era cantata nella chiesa del seminario, per quei chierici che non si recavano in duomo per il servizio liturgico.

Continuando a leggere: «non havranno altro confessore, che il destinato per questo in casa», il sacramento della riconciliazione era raccomandato ogni prima e terza domenica del mese, in occasione delle solennità e delle feste liturgiche, settimanalmente durante l’avvento e la quaresima, «quelli però, che haveranno gli ordini sacri lo faranno ogni otto giorni».

Tutte le prime domeniche del mese, in occasione delle solennità e delle feste, come anche ogni quindici giorni in avvento e quaresima, vestiti della loro cotta, i chierici ricevevano la santissima comunione, trattenendosi poi in chiesa uscendone solo dopo il segnale del prefetto preposto.

I diaconi erano invitati e abilitati alla predicazione anche pubblica, previo consenso del vescovo. Rimaneva la possibilità di abbracciare ulteriori opere di pietà, con preposta licenza del rettore.

Disciplina e costumi

I contenuti circa la disciplina e i costumi sono esposti al capitolo terzo, Della disciplina, e de’ costumi, vi si sottolinea l’obbedienza puntuale e la debita riverenza ai superiori: «avanti al Rettore mai si metteranno a sedere, se non di suo ordine». Il Barbarigo desiderava dai suoi chierici non una fredda obbedienza nei confronti dei superiori, ma piuttosto un affetto «come di veri figlioli»; nel porre una richiesta al Rettore, ci si appellava alla libertà ma anche alla responsabilità, del singolo: «abbiano sempre riguardo circa il tempo, il luogo e alla cosa richiesta, non chiedere nulla che sia contro le regole, non in tempo d’oratione o di studio, non in chiesa, o dopo di avere esso Rettore celebrato la santa messa».
Da saggio pedagogo, qual era San Gregorio Barbarigo, già intuiva l’importanza della libertà di comunicare al proprio rettore anche i sentimenti e gli stati d’animo, così come con «il Monsignor illustrissimo Vescovo si portaranno con ogni schiettezza e sincerità».

Ai chierici raccomandava di tenere sempre bene a mente l’importanza della loro vocazione e ciascuno doveva rendere a Dio le «dovute grazie», sforzandosi di acquistare quello stile di vita consono alla loro chiamata.
Si raccomandava il silenzio in ogni ambiente «il silenzio è mezzo molto a proposito per conservare la pace e la devotione»; a tavola «ognuno si metterà a suo luogo, ne spiegheranno la sua salvietta, o cominceranno a mangiare prima d’aver veduto ciò fare dal rettore», durante i pasti veniva letta la lezione spirituale.

Non ci si stupisca incontrando il paragrafo sulle punizioni, in piena sintonia con la sensibilità del tempo: coloro dai quali «si sentiranno uscir di bocca parole oscene», venivano castigati con una “prigione” di otto giorni, tre dei quali a digiuno con pane e acqua, il venerdì portando anche il cilicio.
Ai chierici veniva raccomandato di guardarsi bene dall’ozio, dalla pigrizia, di rafforzarsi invece nell’esercizio della carità quale garanzia di vera fraternità: «charità fraterna d’una medesima famiglia». Intuizione mirabile quella di concepire il seminario come una famiglia, radice di quelle sensibilità che cresceranno rigogliose nei secoli a venire fino a giorni nostri, ed è in questa capacità di anticipare i tempi, che potremmo definire “profetica”, che si mostrano i veri santi, in quella virtù che apre nuovi e impensati orizzonti, diverse prospettive rischiarando speranze e attese. In effetti, il Barbarigo concepiva il seminario non come una semplice istituzione, bensì come una famiglia in cui l’unico scopo è il bene del chierico quale “seme” del bene della chiesa diocesana: a suo modo ogni chierico era visto dal santo come il cor cordis della chiesa patavina, e «faranno a gara per imitare gl’uni le virtù, che scorgeranno ne gli altri».

Erano invece viste con sospetto le amicizie troppo strette, a motivo di ciò non era possibile trattenersi separatamente dagli altri in numero minore di tre o quattro. Non mancavano certamente i momenti di svago intesi come un tempo di distensione dello spirito, durante i momenti di ricreazione i chierici si dilettavano in alcuni giochi: «alla palla, al tronco maggiore, o altra simil sorte di honesto trattenimento».

Il Barbarigo nella sua persona coniugava l’abilità e l’astuzia della diplomazia con la bellezza della santità, da queste sue qualità scaturiva il desiderio che i suoi chierici fossero contrassegnati dalla gentilezza, dalla garbatezza e dall’eleganza nei modi, oltre che dall’impegno, dalla costanza e dalla perseveranza, quali espressioni da coltivare non per la ricerca di un effimero estetismo, bensì intese come virtù imprescindibili per il pastore che si dispone alla cura e al servizio delle anime.

Il vestire e lo stile

Quanto al Barbarigo stesse a cuore anche la forma oltre che il contenuto, viene espresso nel capitolo quinto delle sue “Institutiones”. In esso vi si espongono i consigli circa il modo di vestire.
Il cardinale vescovo di Padova, ben apprezzava e sentiva proprio il sentimento e il concetto di bellezza, in onore a s. Tommaso d’Aquino, che già spiegava l’essenza vera del bello come sintesi mirabile dei due trascendentali verità e bontà.

Scrive il Barbarigo: «l’abito non sia troppo attillato […], le vesti siano talari, sempre modeste, e ben adatte alla persona […], i calzoni siano solamente di colore nero, […] non si porteranno collari lavorati, né le camicie si lasciaranno vedere fuori dalle maniche […], il cappello non alla moda, ma di forma decente».

Dignità e sobrietà erano le coordinate ispiratrici del Barbarigo; certamente nella sua nobile infanzia e durante la personale esperienza in campo diplomatico aveva assunto l’eleganza e le buone maniere consone agli appartenenti a ceti elevati, queste erano completate dal carisma del suo spirito di riformatore e di uomo retto, il tutto in un mirabile equilibrio che gli consentiva quella “gentile carità” e attenzione nel trattare senza distinzione alcuna qualsiasi persona.
Questo era quanto desiderava per il suo clero e tal proposito lo raccomandava vivamente ai suoi chierici.

Cose necessarie ai chierici

Leggendo le “regole” che San Gregorio Barbarigo consegnava ai suoi seminaristi ci si imbatte in un capitolo nel quale sono elencate le cose necessarie e indispensabili a ciascun chierico.

Tra i libri sono elencati il breviario, il diurno, la corona, l’offizio della Beata Vergine (vespro e compieta); non debbono mancare un quadretto di devozione e il vaso per l’acqua benedetta, una cotta, le regole del seminario, un libro spirituale nel quale doveva trovarsi la vita di San Francesco di Sales, le costituzioni sinodali della chiesa patavina e le monizioni di San Carlo Borromeo al clero. Due vesti talari una «pavonazza, l’altra nera», il cappello, almeno sei camicie e altrettanti fazzoletti.
In piena sintonia con quanto definito dal Concilio di Trento, per accedere al seminario bisognava aver compiuto il dodicesimo anno d’età e conoscere i primi rudimenti della grammatica. Così si esprimeva: «e non farà prattico della grammatica e umanità, non s’ammetterà in seminario», oltre alla richiesta di una più generale propensione per gli studi, alla docilità, alla disciplina e soprattutto all’avere come fine specifico della vita il sacerdozio.

Al ventesimo anno d’età i chierici erano abilitati allo studio della filosofia e della teologia. Ogni chierico, poi, doveva avere in Padova una qualche persona che almeno ogni quindici giorni si recasse a trovarlo e che provvedesse alle personali necessità, giacché ai chierici non era consentita uscita alcuna se non in periodo estivo.